Il Gruppo volontari amici del Piana “Elio Scarpa”.

 Il nostro gruppo si chiama Gruppo volontari amici del Piana “Elio Scarpa” della Fondazione Monte Piana. È intitolato ad Elio Scarpa, ex colonnello degli alpini e vicepresidente della Fondazione, morto nell’86, grazie al quale il gruppo poté sorgere dalla Fondazione. Fra due anni potremo festeggiare tre decenni di attività, 30 anni nei quali con le nostre forze di semplici appassionati siamo riusciti a realizzare parecchio.

Lavoriamo al Monte Piana dal 1983, cioè da quando gli Amici delle Dolomiti si sono trasferiti in altra zona.

Con il Museo Storico all’aperto di Monte Piana siamo partiti da una posizione di favore rispetto ad altri gruppi che hanno dovuto costruirsi l’idea, scegliersi la zona, e così via. Noi lavoravamo già da due anni per gli Amici delle Dolomiti e ci dispiaceva cambiare zona. Oltretutto avevamo capito una cosa importante: il grosso problema del mantenimento del posto ove il gruppo aveva lavorato già da anni.

In sei estati, dal 1977 al 1982, gli Amici delle Dolomiti avevano impostato il Museo all’aperto, manutenzionando i sentieri, mettendo in sicurezza i tratti più esposti attrezzandoli con funi metalliche, rifacendo tutta la segnaletica che era inesistente, puntellando e mettendo in sicurezza le gallerie principali (Monte Piana è un colabrodo di gallerie), ristrutturando quella che era la vecchia baracca dei pastori e adibendola a nucleo del campo base, scavando varie trincee e postazioni principali. Noi abbiamo ricevuto questa grossa eredità.

Nel 1981 c’era stata la cerimonia della consegna del Museo da parte del colonnello Walter Schaumann all’allora 4° Corpo d’Armata Alpino, che non potendo garantire nel tempo la manutenzione ha poi affidato questo onere alla Fondazione Monte Piana di Treviso, sorta nel primo dopoguerra per aiutare invalidi, mutilati e orfani di guerra, e che tuttora continua a vivere sostenendo non più i vecchi reduci che combatterono sul Monte Piana, ma mantenendo cippi monumenti eretti nel primo dopoguerra e conservando l’usanza di indire celebrazioni in commemorazione dei caduti la prima domenica di settembre di ogni anno.

Gli Amici delle Dolomiti hanno fatto sì che noi potessimo sfruttare l’occasione, chiedendo alla Fondazione Monte Piana di occuparci della manutenzione e continuando a lavorare sulla montagna. La risposta fu immediata e positiva, perché aspettavano proprio che qualcuno si facesse avanti, e così abbiamo iniziato. Nel 1983 eravamo da soli, allo sbaraglio e senza aiuti di alcun genere. Dal 1984 invece c’è stata una convenzione tra la Regione Militare Nordest e la Fondazione Monte Piana per un concorso logistico che ogni estate potesse darci una mano.

Va ricordato che Monte Piana è una montagna particolare, un grosso altipiano appena sopra Misurina al fianco delle Tre Cime di Lavaredo e a nord del Cristallo, di 2325 metri di quota; un pianoro diviso da una selletta, la parte sud italiana, la parte nord austriaca. È sempre stata zona di confine: ci sono cippi del 1753 tra la Contea del Tirolo e la Serenissima, nel 1866 diventarono i confini tra Italia e Austria, e tuttora è zona di confine tra il Trentino-Alto Adige e il Veneto. Zona d’importanza strategica fin dal 1905, quando gli italiani costruirono la prima strada, venne ancor prima della guerra presidiata dagli austriaci, che costruirono in tutte le montagne circostanti zone dove dissimularono batterie e attrezzarono villaggi. Poi venne la guerra.

A distanza di oltre 80 anni ci restano un’infinità di postazioni, gallerie, resti di ricoveri. Quello che abbiamo fatto dal 1983 è stato di manutenzionare ciò che Schaumann aveva iniziato. Erano già state scelte le postazioni giudicate dal gruppo più interessanti, e noi ci siamo prefissi da allora di collegare queste postazioni creando un percorso storico turistico. In 20 anni ci siamo riusciti piuttosto bene. Non ci siamo imposti di ripulire totalmente Monte Piana, non basterebbero i nostri figli e i loro figli per scavare tutto. Però vogliamo far capire alle generazioni seguite al periodo bellico l’assurdità della guerra. Perché si rendano conto non tanto di come combattevano gli eserciti che si fronteggiavano, quanto di come riuscivano a sopravvivere i soldati in quelle trincee.

La nostra è diventata un’opera di ripristino di quello che la natura ha lasciato dopo 80 anni di degrado lento ma costante. Il nostro intervento, mirato nell’arco di 15 giorni annuali, e cioè le prime due settimane di agosto, si prefigge la manutenzione del Museo Storico all’aperto, per avere la garanzia che nel tempo possa continuare ad esistere. Oltre alla manutenzione interviene il secondo punto per noi importantissimo: il ripristino. Ogni anno il Museo ha un piccolo ma sostanziale ampliamento. Questo significa attirare turismo, attirare gente, dare una possibilità ai valligiani per incrementare le presenze, per organizzare visite guidate, conferenze e così via; piccole cose, ma che garantiscono continuità. Le Amministrazioni locali, che si rendono conto del vantaggio, ci sostengono. Il terzo compito è quello della pulizia della montagna. Forse sembra banale, ma ci siamo imposti che se ci si sposta, ad esempio, dalla sommità sud a quella nord, ci si porta il sacco e si raccoglie quello lasciato dai turisti (non dai soldati, ci sarebbero migliaia di scatolette originali marcate 1915-17: quelle fanno parte della storia come i sassi). Negli anni Ottanta abbiamo anche bonificato le discariche che il gruppo che ci aveva preceduto aveva realizzato.

La nostra gestione è semplicissima. Siamo volontari al 100%, non riceviamo alcuna sovvenzione, praticamente viviamo quelle due settimane in una trentina di persone che si alternano in turni: la presenza giornaliera si aggira attorno alle 15-20 unità. Viviamo nelle tende militari che il Comando del 6° Reggimento Alpini ci fornisce, oltre a vari material di uso generale. È un campo base che forse si avvicina più all’epoca del 15-18 che ad una struttura moderna. Ci sovvenzioniamo da soli, ogni volontario paga 5 euro al giorno per procurare i viveri per tutti, e nel banchetto col registro dei visitatori al Museo c’è la classica gavetta per le offerte che ci aiutano ad integrare. Gli alpini ci fanno la spesa giornaliera di prima necessità, salendo la mattina dalla caserma per portarsi in quota. Non abbiamo mai avuto problemi, quello che riusciamo a mettere da parte lo usiamo per acquistare attrezzi.

Tuttora utilizziamo attrezzi anche originali, al fine di entrare maggiormente nell’ottica della nostra attività: noi riteniamo di fare dell’archeologia moderna. Effettuiamo lo scavo con molta attenzione, è un modo per cercare di capire chi, in quel ricovero o in quel sistema trincerato di camminamenti e baracchini vari collegati tra di loro, viveva e riusciva a sopravvivere. Fino al 1986 avevamo addirittura un reduce ad indicarci le varie postazioni, che con mente lucidissima ci diceva dove effettuare i sondaggi e gli scavi.

Siamo riusciti, pensiamo, a sfruttare le eredità dei Dolomitenfreund: stiamo mantenendo un museo che altrimenti degraderebbe, abbiamo la possibilità di promuovere ogni tanto qualche piccola conferenza, proiezioni di diapositive, qualche giornale ci pubblica qualche articolo, abbiamo il sostegno del Comune di Auronzo per tutti i bisogni burocratici (ma collaboriamo anche col Comune di Dobbiaco). C’è senz’altro un ritorno d’immagine, e ci inorgoglisce il fatto che qualcosa effettivamente si muove anche grazie a noi.

Lavoriamo comunque in modo sostanzialmente diverso da tanti altri: ci siamo imposti di non ricostruire assolutamente nulla. Operiamo come un qualsiasi archeologo scava e fa i rilievi: non appena vediamo una spanna di trave che spunta da quello che può essere un ricovero, scaviamo e troviamo i resti della baracca con tutto quello che la natura ha conservato, dal tavolato marcio alla stufetta fatta di latta, dalla riservetta di legna ai resti della branda. Di tutto questo spesso rimane solo un archivio fotografico, perché nel volgere di qualche stagione tutto va in deperimento. Però in parecchi casi siamo riusciti a mantenere i resti. Ad esempio sfiliamo attentamente tutto il tavolame, lo mettiamo in ordine, riassembliamo il fondo della baracca con un’intercapedine, utilizziamo chiodi originali per il consolidamento del tutto, e poi si spera che il disgelo e l’inclemenza dei vandali riesca a risparmiare la nostra fatica. Abbiamo dei baraccamenti di 90 anni, che per quello che la natura ha lasciato sono ancora lì.

Questo tipo di recupero dà l’idea di come si viveva lì, fa capire le cose. Ad esempio il gruppo ha ripristinato un baraccamento sottoterra che dà l’idea della baracca coperta, della disposizione di pietre e di erba come era allora. Idem per i collegamenti fatti con le varie postazioni, ci sono ad esempio delle branche laterali di camminamento, quello principale sistemato da noi e quelle secondarie che abbiamo lasciato come la natura le ha modificate, prendendo talvolta il sopravvento. Se un muro a secco crolla lo rifacciamo a secco, sgombrando l’area e rifacendo tutto come allora, con gli stessi sassi. Resterà su altri 80 anni. Sentir parlare di cementificazione ci fa rizzare i capelli.

Non abbiamo idea se un domani avremo la possibilità di accedere a sovvenzioni europee, resta il fatto che riceverle vuol dire anche rendere conto dei soldi spesi. Per noi il Monte Piana ormai fa parte della nostra vita, più di metà della nostra esistenza l’abbiamo passata lassù e non potremmo rinunciarci, anche perché c’è un impegno morale di proseguire.

Se arrivano sovvenzioni bene, anche perché sicuramente ci sono dei problemi a proposito del concorso logistico dell’esercito.

Per noi il più grosso problema è la mancanza di acqua, che sul Monte Piana non c’è. Una volta, prima dell’esercito, la portavamo su a spalla con le taniche e poi la razionavamo.

Dal 2000 paghiamo parte di questo aiuto (inizialmente circa 800 euro) ma che, dall’abolizione della leva, è diventato estremamente oneroso e poco utile in quanto si limita al trasporto e parziale aiuto al montaggio e, dopo 15 giorni, lo smontaggio del campo.  Oramai nelle caserme della zona sono rimasti in quattro gatti.

Fino a metà degli anni novanta ci vedevamo costretti a dividere il pranzo con i soldati per non farli mangiare da soli il loro sacchetto viveri; un pasto caldo è sempre meglio di panini e scatolette.

Poi, fino al 2004, è andata abbastanza bene: ci veniva assegnato un autista e un capomacchina; oltre a tutto i soldati, nella libera uscita serale, ci facevano qualche acquisto necessario e ce lo portavano su il mattino dopo.

Oggi solo il saltuario aiuto della Protezione Civile di Auronzo o dei suoi operai comunali ci alleviano la fatica delle corvee; ciononostante capita di dover scendere, con i nostri mezzi, a prendere l’acqua e, quel che è peggio, portarla dal rifugio Bosi al campo sulla sommità sud a forza di braccia.

Questo anno, il 2011, un ulteriore, banale ma, per noi importante, problema: L’Esercito non è più disponibile per gli interventi di allestimento e smontaggio del campo in giornate festive o semi-festive.  Ciò significa che la nostra esperienza di due settimane non può più cominciare, come fino ad ora, al sabato e terminare la domenica. Il campo verrà montato il lunedì, ma quel che è peggio, dovrà, se non si vogliono perdere 3 giornate, smontato il lunedì quando già alcuni di noi devono, magari, essere al lavoro.